Fernando Lena e La profezia dei voli su Rivista clanDestino
On agosto 9, 2018 | 0 Comments

Tu pà | tu tu pà

Bisogna volere la poesia. L’opera ruvida e illuminata da fuori.
Fernando Lena ha messo insieme un libro sbilenco, sbilanciato, e non nell’insieme, nel macrotesto, perché ogni testo è senza centro, e si compone di un vertice folgorante che in pochi versi strappa l’anima alle pietre e di una ampia caduta, più bassa nel tono e nel respiro. Le poesie cadono nel ventre catramato della terra e compiono altissimi voli. Mi sono chiesto se fosse un limite, una tessitura irrisolta. Non lo è affatto: è un invito a riconoscere «l’evento profondo» della poesia, il motivo per cui, ancora, la leggiamo e la facciamo leggere.
Un libretto appena pubblicato (P. Giovannetti, La poesia degli anni Duemila, Roma, Carocci, 2018, p. 27) dedica alcune pagine all’«evento profondo» che cerchiamo: esso corrisponderebbe a «una specie di addizione», a un’osservazione morale privatissima, una lezioncina postuma, che viene “dopo” l’avvenimento. Le poesie di Fernando Lena ci ricordano che le cose stanno in questi termini solo se, vivendo, ci siamo dimenticati che cosa è vivere e abbiamo guadagnato una morte di noia. Perché le sue poesie, che pure tanto insistono sulla dimensione narrativa e apparentemente discorsiva che ha dato avvio agli sdottoramenti del critico, ci dicono che la vita possiede un ritmo doppio e unico, esattamente come il ritmo strepitoso della batteria che, in ogni canzone dei NOFX, galoppa da una battuta all’altra fino alla fine e deve essere suonato rigorosamente con un solo pedale, altrimenti sarebbe una facile truffa, un’offesa, uno spreco di cellule. Chi non è disposto a cogliere la doppia natura dell’esperienza in cui la narrazione e l’evento profondo con-sistono e il senso e il reale sono una cosa, e la bellezza del significato non accade in un tempo diverso in virtù di atti mentali e senza amore, chi non è disposto a cogliere questa unità profonda del vivere non sarà in grado di cogliere la poesia di Lena, che chiede la propria verità, la propria dignità, fuori da sé, al di là della parola poetica e direttamente ai frammenti vissuti, dolorati, e infine restituiti a noi sulla carta.

ogni follia / è una carezza di Dio

L’esperienza è stata un inferno terreno, anch’esso doppio e unico: dentro di sé, nelle vene, nella corsa delle sostanze iniettate verso il cuore (a fermarlo sul pavimento, o a dare nuovi battiti?), e insieme nel frammento del tempo trascorso, da tossicodipendente sulla via della disintossicazione, insieme agli schizofrenici di Aversa, figure struggenti e commoventi. I loro ritratti sono quasi insostenibili, tanto è lo stridore della tenerezza che vive e che scalpita in ogni loro allucinazione, in ogni «cellula che irrompe». Nel libro si dà una tenerezza più vera del vero, più reale del reale, ad incarnare il senso della follia che Lena custodisce per consegnarla, intatta, a noi: «fatti forza, dice tra sé / ogni giorno il custode. / chissà perché ogni follia / è una carezza di Dio» (p. 35). Una carezza di Dio, cioè di colui che adesso, qui, sempre qui e sempre adesso, dice “io sono”, dentro una esperienza che ci attraversa e pure è in-comprensibile. Il «verbo gelido» del manicomio, allora, è una sfida lanciata al «cristo crocifisso» (p. 27). Pochi altri versi del libro svelano quale fondale di presenza amorosa sia il Dio di Lena: il Dio che accarezza e ha nome, mani e occhi per tenere dentro di sé queste sue creature dolorose. Il percorso delle pupille è istantaneo, ogni distanza tra l’inferno e il cielo è bruciata: questo scopre Fernando durante una pausa all’esterno del manicomio quando, come per folgorazione, una «carezza di nicotina» concede la consapevolezza sulla «colpa dell’anestesia / che piega le pupille / all’imprevedibilità / delle nuvole» (p. 51). Ogni poesia, si partiva da qui, racchiude due momenti: il canto ruvido e buio, la sua precisione fredda, e la tessera luminosa che lo compone, il segmento dorato che apre lo spazio e spalanca i significati. Queste poesie non “parlano di”, non “raccontano” né “dichiarano” una lezione o un insegnamento morale; attestano, invece, lo sforzo inesausto di racchiudere un’esperienza, il suo miracolo.

adombrava d’imprevedibilità

L’inferno abitato dal miracolo. Per Fernando è sempre un’esperienza di leggerezza, di cui l’«imprevedibilità» è segno. E questa leggerezza, nei punti più riusciti del libro, non viene “detta” ma incarnata dai versi. Così, gli incipit precisi e freddi di cronaca trascolorano, nel breve spazio del componimento, in aperture luminose, sfondamenti inattesi. Ecco, poesia dello sfondamento, del colpo d’ali nelle ossa, reso possibile dal Dio che accarezza le creature. «Sono le 22 di una sera d’ottobre…» (p. 25) è un inizio certamente in minore, respingente, e chi vuole se ne vada. Ma chi prosegue è immesso nel movimento dei fuochi nella notte. Gli strumenti minimi del testo si animano, devono animarsi perché la poesia trovi la realtà: «Dieci anni aveva / quando è stato abbandonato qui / per la sua diversità di “frocio”» (p. 30). Dieci anni aveva, non: “aveva dieci anni”. E cos’è questa minima anastrofe, questa veloce concessione al lamento, se non l’eco della voce di Ciro che nella tecnica, negli artifici del poeta può risuonare? «Peppino ha ingoiato un bullone / affermando la sua vocazione / di cadavere incatenato» (p.36). In questi tre versi c’è tutto del libro: il suono lieve e popolare del soprannome, a interrogare la tragica e incomprensibile corrispondenza con l’uomo che lo porta; un “bullone” chiude il novenario, oggetto minuscolo che di quest’uomo, di questo suicida, ha lo stesso peso di tre sillabe, e lo rende un “cadavere incatenato” quasi portando a compimento la sua sventurata esistenza di internato, inverandola alla fine. Ma Peppino non era solo uno schizofrenico «seppellito / dall’indifferenza civile» (p. 25) perché tutte le domeniche, certo come poteva, serviva la messa del manicomio, e «come un angelo del caos / adombrava d’imprevedibilità / ogni eucarestia» (p. 35). «Adombrava d’imprevedibilità»: un endecasillabo dagli accenti così mossi e affannati è impossibile costruirlo per via intellettuale. È la conoscenza concessa alla poesia: in questo verso c’è Peppino che si agita all’altare. «Ogni eucarestia»: Peppino rendeva possibile l’incarnazione di Dio. La sua reale partecipazione all’evento che dava senso al corpo e alla storia ci sostiene nell’affrontare la discesa nelle «parole che fluiscono / come un elettroshock» (p. 40), «la bugia millimetrata» (p. 55), la violenza che si abbatte oscura sui poveri corpi. Ma che non vince, e per questo merita di essere scritta.
(Pietro Cagni www.rivistaclandestino.com/fernando-lena-la-profezia-dei-voli/ )

 

XVII

Suor Adelaide da vent’anni
aspetta un miracolo
ne parla spesso con Dio
invocando una deriva dolce
per queste cavie
qualche anno fa
ha rischiato di morire
dopo essere stata aggredita
dal suo discepolo più giovane.
Per giorni è rimasta in coma
poi appena sveglia…con un sorriso
ha esclamato che Aversa
non sarà mai
il capoluogo dell’inferno.

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